18 ottobre 2017 – Giuseppe De Santis 100 anni

Sala Trevi (Roma)

GIUSEPPE DE SANTIS, la trasfigurazione della realtà

a cura di Marco Grossi

18 OTTOBRE 2017  ore 20,30

Sala Trevi, Vicolo del Puttarello – zona Fontana di Trevi – (Roma)

 

La Cineteca Nazionale rende omaggio a Giuseppe De Santis, nel centenario della nascita, con il restauro di Non c’è pace tra gli ulivi, presentato a Venezia Classic, la riedizione, riveduta e aggiornata, della monografia sul regista, a cura di Marco Grossi, e la presente retrospettiva al Cinema Trevi. De Santis «fu tra i protagonisti del Neorealismo, di cui sviluppò una linea tanto personale quanto esemplare, quella che coglieva il nesso tra l’immaginazione popolare e l’epica contadina, tra un paesaggio rurale, arcaico e mitico e le trasformazioni apportate dalla civiltà dei mass media, tra la militanza politica, le lotte collettive e le strutture dell’immaginario, nutrite di cadenze melodrammatiche e romanzesche. Nel 1995 il Leone d’oro alla carriera conferitogli alla Mostra del cinema di Venezia sancì tardivamente, dopo due decenni di emarginazione, il suo apporto fondamentale alla storia del cinema italiano. Negli anni Trenta pubblicò racconti su diverse riviste, quindi nel 1935 si trasferì per gli studi universitari a Roma, dove entrò in contatto con intellettuali antifascisti come L. de Libero, R. Guttuso, P. Ingrao, M. Alicata, U. Barbaro. Tra il 1941 e il 1943 frequentò, pur senza diplomarsi, i corsi di regia del Centro sperimentale di cinematografia. Gli stessi anni lo videro coinvolto in un’appassionata militanza critica sulle pagine di “Cinema” (prima serie), dove delineò le basi teoriche di quello che di lì a poco sarebbe stato il Neorealismo. […] Queste istanze costituirono il retroterra di D. S. nella collaborazione, come sceneggiatore e aiuto regista, al film che fu emblematico risultato di quel clima civile e culturale, Ossessione (1943) di Luchino Visconti. Nell’immediato dopoguerra fu significativa la sua partecipazione a due film commissionati dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia): Giorni di gloria (1945), film di montaggio e a episodi sulla Resistenza, di cui D. S. fu coordinatore con Mario Serandrei (e a cui collaborarono Barbaro, Visconti e Marcello Pagliero), e Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, storia di un reduce che si converte alla lotta partigiana, in cui fu assistente regista e di cui firmò la sceneggiatura. Fu anche sceneggiatore, non accreditato, per Desiderio, iniziato nel 1943 (con il titolo Rinuncia o Scalo merci) da Roberto Rossellini e completato nel 1946 da Pagliero […]. Nel suo film di esordio come regista, Caccia tragica (1947), prodotto dall’ANPI, sulla lotta tra i banditi sicari del padronato e le cooperative agricole emiliane, la figura della collaborazionista “Lili Marlene” (Vivi Gioi) incarna l’aspetto torbido della vicenda attraverso una femminilità proterva e disperata, lasciando trasparire non solo la lezione dei cineasti sovietici ma anche la densità drammaturgica amata da D. S. nei film noir statunitensi e in quelli di Jean Renoir. Così l’importanza, e anche il successo, di un film come Riso amaro (1949), ritratto della condizione e delle aspirazioni delle mondariso nelle paludi del Vercellese, derivò dalla capacità di D. S. di aderire a un tessuto di immaginazione popolare che passava attraverso le ansie di riscatto sociale incarnate dal magnetismo della protagonista Silvana Mangano, subito assurta al ruolo di icona popolare di un Neorealismo portato dal film ai livelli di fenomeno di massa. E nei successivi film a tematica femminile, Roma, ore 11 (1952), su un tragico incidente che vide vittime numerose ragazze in cerca di lavoro, e Un marito per Anna Zaccheo (1953), sul calvario umano e sociale di un’aspirante fotomodella, appare evidente la capacità di D. S. di catturare, come materiali contaminati e ibridati stilisticamente, i segni della civiltà di massa, i tratti distintivi dei mass media e del romanzesco popolare. […] Un aspetto, questo dell’attenzione anche sperimentale alla forma più efficace per veicolare ed esprimere un’epica popolare e di classe, che in Non c’è pace tra gli ulivi (1950), resoconto di una vendetta rusticana ambientata tra i pastori di Fondi, si traduce nell’intelaiatura visiva fatta di campi lunghi, panfocus, elaborati piani-sequenza, carrelli e ampi movimenti di gru, che diventa cifra compositiva, anticipando addirittura, come negli sguardi in macchina che si rivolgono allo spettatore, le modalità di straniamento del cinema degli anni Sessanta. In Giorni d’amore (1954) ritornano lo scenario rurale, l’ambientazione ciociara, la centralità della figura femminile (una luminosa Marina Vlady) nel racconto di una fuga d’amore stemperata sui colori ingenui e divertiti di una favola contadina, cui collaborò il pittore D. Purificato. Il mondo arcaico dei “lupari” delle montagne abruzzesi in Uomini e lupi (1957) si presta a cadenze rudi non esenti da un’acre osservazione sociale, nel tentativo di una rilettura “regionalistica” del western, ma il film fu manipolato dalla Titanus e D. S., disconoscendolo, denunciò il fatto con una lettera aperta. L’intransigenza, il rigore ideologico e la fedeltà al proprio modo di lavorare resero via via D. S. una figura scomoda per il sistema produttivo italiano, mentre fu apprezzato all’estero, in Unione Sovietica come negli Stati Uniti. Nel 1958 si trasferì in Iugoslavia per girare un apologo simbolico sulla fame e sul lavoro, Cesta duga godinu dana (La strada lunga un anno), che assunse un respiro di affresco populista. Il sentimento della coralità animò di afflato malinconico e di lucida analisi antimilitarista anche la coproduzione italo-sovietica Italiani brava gente (1964), racconto della disfatta italiana nella campagna di Russia durante l’ultima guerra. Come un controcanto alla dimensione collettiva di questi due film D. S. alternò la realizzazione di due storie sul solipsismo borghese degli anni del boom e del rampantismo sociale, La garçonnière (1960) e Un apprezzato professionista di sicuro avvenire (1972): anche se irrisolti, questi film sembrano essere una sarcastica e amara metafora di una società del compromesso […]. Negli ultimi anni, tornato nelle aule del Centro sperimentale per insegnare recitazione, fu vicino ai giovani attori e registi italiani, che riconobbero nel suo cinema una lezione fondamentale» (Bruno Roberti, Enciclopedia del Cinema Treccani).

mercoledì 18
ore 16.30 Giorni d’amore di Giuseppe De Santis (1954, 102′)
«Due giovani contadini di Fondi, Angela e Pasquale, sono promessi sposi da alcuni anni. Per tradizione le nozze devono celebrarsi con tutta solennità e richiedono una notevole spesa economica, ma le famiglie dei fidanzati sono povere e il matrimonio viene rimandato di anno in anno. Un giorno Pasquale decide di ricorrere a un sotterfugio, con la complicità mascherata dei parenti di entrambi: fingerà di rapire Angela, in modo che il matrimonio diverrà inevitabile e le nozze saranno celebrate in fretta e con semplicità. Il piano concordato di nascosto tra le famiglie viene attuato» (Marco Grossi). «Tre anni dopo Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani – un capolavoro che pochi hanno voluto riconoscere come tale – e un anno dopo Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini – una simpatica commedia rusticana che nelle intenzioni del regista avrebbe dovuto essere anche aspra […]. Peppe De Santis, non riuscendo a condurre in porto progetti più ambiziosi, si inserì con molta autonomia nel filone che alcuni critici della sua parte vollero chiamare “neorealismo rosa”. Ne risultò un film spregiudicato e allegro, di una vitalità e di un colore raramente eguagliati nel nostro cinema. Un colore che non era solo quello del Ferraniacolor, che unicamente in questo caso, a mia memoria, fu usato in modo così controllato e personale, sperimentale e autoriale; e per averne conferma basta confrontarlo con gli altri prodotti di quegli anni, dal pioneristico Totò a colori (1952) di Steno a La nave delle donne maledette (1953) di Raffaello Matarazzo» (Fofi). Nastro d’Argento 1954-1955 a Marcello Mastroianni come miglior attore protagonista.
ore 18.30 Uomini e lupi di Giuseppe De Santis (1957, 104′)
«La minaccia dei lupi incombe come ogni inverno su un piccolo paese delle montagne abruzzesi, Vischio. Le belve feroci fanno strage di pecore e costituiscono una minaccia anche per gli animali rinchiusi nelle stalle. Attirati da un premio di ventimila lire per ogni belva uccisa, due lupari raggiungono il paese. Giovanni, uomo maturo, ha già ucciso molti lupi e ha necessità di guadagnare per mantenere la moglie Teresa e il figlio Pasqualino. Ricuccio, giovane simpatico e baldanzoso, sembra in realtà interessato solo a sfruttare la situazione e l’ospitalità per andare a caccia di donne» (Marco Grossi). «Il sale diUomini e lupi, il segreto della sua tenuta, sta proprio nell’essere fuori dal tempo, opus perfettamente preistorico. Del mito e dell’epos, prima del patto della legge e della moneta (che mai come qui prende la sua forma dalla caciotta: Pasqualino ci vorrebbe adescare pure il lupo). Non ci sono preti né sindaci, guardie né carabinieri. Solo magazzini e osterie, anche se Ricuccio non ha bisogno di vino per vaneggiare: gli basta la finestra d’un paese di fantasmi per lanciarsi in comizi d’amore» (Sanguineti).
Per gentile concessione della Titanus
ore 20.30 Incontro con Marco GrossiStefano MasiGordana MileticVito Zagarrio
Nel corso dell’incontro sarà presentato il libro Giuseppe De Santis. La trasfigurazione della realtà a cura di Marco Grossi (Centro Sperimentale di Cinematografia, Associazione Giuseppe De Santis, Edizioni Sabinae, 2017).
a seguire Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis (1950, 103′)
«Il pastore Francesco Dominici, tornato dalla guerra, cerca invano lavoro nella sua terra segnata dagli eventi bellici. Una notte, per vendicarsi di un furto di pecore subito dalla sua famiglia e perpetrato dal losco Agostino Bonfiglio, arricchitosi con la borsa nera e l’usura, va a riprendersi le sue pecore con l’aiuto della sua innamorata Lucia e della sorella Maria Grazia, ma viene denunciato e arrestato» (Marco Grossi). «Ogni inquadratura sarebbe da citare, per mettere in rilievo la scultoreità delle pose, il bloccaggio degli sguardi, la composizione in profondità di campo e in diagonali che correlano i personaggi fra loro, la figurazione in contrasti estremi fra bianchi e neri. Se ne potrebbe dedurre un’impressione di staticità complessiva; essa è tuttavia animata, anzi musicalmente ritmata sia dagli stacchi di montaggio, che sono sistematicamente oppositivi, anche se non necessariamente dissonanti, sia dai movimenti di macchina, sempre tesi non ad accompagnare un’azione ma, visibili come sono, a “coreografarla”. […] Tutto questo rende difficile se non impossibile parlare di neorealismo, anche se alcuni referenti di cui il film di De Santis è debitore vengono ascritti a tale scuola: La terra trema (1948) di Luchino Visconti e In nome della legge (1949) di Pietro Germi; ma, appunto, sono film come questi a farci capire che sotto l’etichetta neorealista si celano – accomunate certo da analoghi propositi di denuncia sociale – le più contrastanti tendenze formali. Ma De Santis guarda oltre frontiera: a Orson Welles (al quale potrebbe ascriversi l’uso anomalo della voice over), al messicano Emilio Fernàndez (all’epoca assai considerato in Italia, e maestro dei contrasti bianco-neri col suo direttore della fotografia Gabriel Figueroa, al quale non è escluso che Piero Portalupi si sia ispirato per le luci di questo film), nonché ai sovietici più formalisti, non solo Sergej Ejzenštejn […] ma anche a registi come Grigorij Aleksandrov. E presumibilmente il didattismo esibito diNon c’è pace tra gli ulivi deve molto a questi ultimi» (Aprà).
Il restauro del film è stato realizzato dalla Cineteca Nazionale a partire dai negativi scena e colonna messi a disposizione da Cristaldi Film di Zeudi Araya e Massimo Cristaldi. Le lavorazioni sono state eseguite presso il laboratorio Fotocinema di Roma. L’originario tono fotografico del film è stato ricostruito con la supervisione del direttore della fotografia Giuseppe Lanci.

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