Caterina Boratto, la donna che visse tre volte
di Marina Ceratto
CATERINA BORATTO, la donna che visse tre volte
di Marina Ceratto
Prefazione di Gian Luigi Rondi
Pagine 302; 16 pagine a colori, formato 14×21
Euro 18,00
Isbn 978 88 98 623 280
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INTERVISTA A EFFETTO CINEMA, Radio Vaticana: http://it.radiovaticana.va/news/2015/12/18/effetto_cinema_caterina_boratto,_la_donna_che_visse_3_volte/1195365
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Dal volume “Caterina Boratto, la donna che visse tre volte”:
Ho cominciato ad ascoltare la sua voce molto tempo fa a Torino, da bambina. Avevo sette anni e giocavo su una terrazza della Sanatrix, la clinica di famiglia. Era autunno, ottobre inoltrato. Il cielo grigio e gonfio di nubi si aprì in un violento acquazzone. Lei, che stava mangiando dei cachi, scoppiò a ridere mentre la pioggia scorreva sui suoi capelli biondi regalandole qualcosa di immortale. Allora cominciò a raccontarmi il romanzo della sua vita, storie di guerra e d’amore, di cinema e passione, di musica e canzoni. Ma spesso s’interrompeva, bastava un rumore a farla tacere. Pensai che nascondesse inconfessabili segreti… «Quanto ti racconto non ripeterlo a nessuno» mi ammoniva. Solo ora ho capito il senso delle sue parole e della sua vita e lo affido a queste pagine.
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Premessa
Dopo la morte di Fellini ho avuto un incubo ricorrente: sogno la mia partenza dalla vita. Io che nemmeno a settant’anni mi sentivo anziana, sono divenuta di colpo vecchia. Il passato a volte mi ingombra la mente, a volte scivola lungo i miei giorni solitari come una slitta sulla neve. Ma esiste una soglia, superata la quale, si fatica a sperare, è doloroso esistere, eppure non si è pronti per l’addio. Dal giorno in cui ho sfilato davanti alla sua bara vegliata da due carabinieri in alta uniforme, qualcosa è cambiato per sempre. «Due carabinieri come per Pinocchio!» ha esclamato, geniale, Ettore Scola. Ho percorso la magnifica scenografia allestita da Dante Ferretti a Cinecittà affranta e sconvolta, ripetendomi: «non è vero! non può essere vero!» Incontravo Federico Fellini nel centro di Roma a piazza San Silvestro, perché andava alla Posta centrale dagli anni quaranta per spedire lettere e fare telefonate. Era ormai una nostra abitudine percorrere insieme un tratto di strada. Ultimamente mi prendeva sottobraccio lamentandosi di tutto, dell’insonnia che lo tormentava e della crisi profonda che stava attraversando il cinema italiano. Era molto pessimista. Mi accompagnava fino a via Margutta, dove abitava, o a Piazza del Popolo. Sembrava che ci fossimo dati un appuntamento, invece i nostri incontri erano casuali. Come la prima volta che il destino ci aveva fatto incontrare all’angolo di via Borgognona nel 1962, mentre uscivo dalla Standa carica di pacchetti. Quell’incontro fortuito cambiò il corso della mia vita riportandomi al cinema che, per motivi familiari, avevo dovuto abbandonare. Venti anni prima ci eravamo frequentati come fraterni amici, si mangiava nelle latteria di via Frattina, vicino all’antiquario Apolloni, ci si voleva un gran bene. Federico era un fiume di parole, simili a carezze suadenti, leggere. Se avevi appena qualche dubbio di non essere importante ai suoi occhi, moltiplicava le invenzioni del suo personale dizionario affettivo. Con la fama e il successo di La dolce vita era diventato più affascinante, ma erano aumentate anche la sua voglia di sedurre e la sua curiosità per il mondo femminile. Le donne lo attraevano, ma non quanto il cinema. «Non ho mai avuto il desiderio, stringendo fra le braccia una donna, di amarla per sempre» mi confidò una volta. « Non ho mai sentito scoccare la scintilla fatale, quella che ti fa pensare “sì, è lei per l’eternità”.» Ma non si rendeva conto di provocare nelle donne, con il suo avvolgente modo di porsi, le illusioni più forti come le delusioni più cocenti. Ogni volta che attraversavamo le vie del centro di Roma, per distrarlo bastava un colpo di vento che scoprisse le gambe di qualche bel donnone. Ognuna poteva diventare, per qualche mese o qualche giorno, la reincarnazione di un antico amore o l’illusione di un futuro, oppure un disegno, uno schizzo festoso o una caricatura da fermare sulla carta. Dopo il 1990 era diventato insofferente, aveva smesso di fare le fusa. Non amava più l’Italia affarista e corrotta mostrata dalle televisioni commerciali. Infastidito dal trascorrere del tempo, lo annichiliva l’idea di invecchiare senza avere perennemente a disposizione il suo parco giochi, quella Cinecittà che per lui era il Paese delle Meraviglie. Adesso iniziare un film gli costava sudore. Anche la sua voce aveva cambiato tono, da felina e avvolgente era diventata più sbrigativa. Non mi rivolgeva più l’ingenua domanda se la vita avesse qualche recondito significato o fosse solo un misterioso e fatato turbinio. C’era qualcosa aldilà o niente? E se lassù avesse trovato al posto di una cinepresa una torta al pan di spagna? Invecchiando dormiva sempre meno. Non ebbi il tempo di raccontargli il sogno che turbava i miei risvegli. Assomigliava al finale, poi tagliato, di Otto e mezzo: sono in attesa di un treno in una piccola stazione del canavese, immersa nella nebbia non riesco a riconoscerla, è Ivrea o Strambino? Il treno tarda e comincio a camminare impaziente senza bagagli e senza valige. Vorrei andarmene, ma il capostazione, un ometto dal naso rosso che pare uscito dal Corrierino dei Piccoli, mi trattiene. Finalmente il treno arriva, simile a tanti altri, se non fosse immerso in una nebbia così fitta da togliere il fiato. Ma, a poco a poco, quel velo si squarcia e dai finestrini dello scompartimento mi sembra di vedere uno dopo 9 Marina Ceratto l’altro le sagome immobili e silenziose dei miei familiari, mio padre Maurilio, mia madre Albertina, i miei fratelli, insieme a quelle degli uomini che ho amato e perduto. Penso che gli anni non sono trascorsi invano: adesso è semplice riprendere il discorso che avevo interrotto con loro, poterli capire come prima non avevo potuto. Tento di salire su quel treno, di raggiungerli, per afferrare la trama del mio destino, così difficile e sofferto, la ragione di una vita che, come una matrioska, sembra racchiuderne altre due o tre differenti. Metto un piede sul predellino, ma il capostazione, brutalmente, mi afferra per le spalle e mi impedisce di salire e raggiungere i miei cari. Mi sveglio con l’angoscia di quella partenza rinviata e rivedo tutta la mia vita, che inizia con il matrimonio dei miei genitori nel lontano 1910. L’anno in cui nove milioni di emigranti, tra i quali mio nonno Angelo, sbarcano negli Stati Uniti per ricostruire la loro vita. In Italia furoreggia una popolarissima ballata di fine Ottocento: Mamma mia dammi cento lire / che in America voglio andar. / Cento lire io te le do, / ma in America no, no, no!
“La Stampa”, 2 novembre 2017
“La Stampa”, 4 novembre 2017
“Sette” inserto de “Il Corriere della Sera” 10 giugno 2016
“Il Venerdì di Repubblica” 4 marzo 2016
“Il fatto quotidiano” 2 gennaio 2016
“Il Corriere della Sera” 27 dicembre 2015:
“Il Foglio” 19 dicembre 2015:
Caterina Boratto nel film “Giulietta degli spiriti” (1965) di Federico Fellini – Foto di Franco Pinna
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