Antonio Pietrangeli, il regista che amava le donne
a cura di Piera Detassis, Emiliano Morreale, Mario Sesti
ANTONIO PIETRANGELI
Il regista che amava le donne
a cura di Piera Detassis, Emiliano Morreale, Mario Sesti
Pagine 224, illustrato, italiano e inglese
Isbn 978 88 98623 273
Euro 20,00
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Video presentazione:
http://www.romacinemafest.tv/festa-del-cinema-di-roma-2015/festa-del-cinema-di-roma-2015/1851/la-retrospettiva-accompagnata-dalluscita-del-volume-antonio-pietrangeli-il-regista-che-amava-le-donne.php
Introduzione
Piera Detassis, Emiliano Morreale, Mario Sesti
Antonio Pietrangeli è ormai uno dei grandi registi italiani degli anni ‘60. La critica considera alcuni suoi titoli, da La parmigiana a La visita, e soprattutto Io la conoscevo bene, al livello degli esiti di Antonioni, Fellini, Visconti. Si è trattato di un’acquisizione graduale, a partire dalla riconsiderazione dell’autore come grande ritrattista femminile, in un decennio in cui i grandi generi, dalla commedia all’italiana al western, segnavano un cambiamento di rotta verso il maschile, a confronto con i melodrammi e il neorealismo rosa (Due soldi di speranza, Pane amore e fantasia, ma anche Poveri ma belli) del decennio precedente. Questa rivalutazione, ormai canonica nell’ambito degli studi, non è però di pari livello per il pubblico comune, e soprattutto per il pubblico internazionale, cosicché spesso il nome di Pietrangeli è per certi versi da riscoprire in pieno. La retrospettiva della festa del cinema di Roma e del MoMA di New York, organizzata da Cinecittà Luce con la collaborazione del Csc-Cineteca Nazionale, è dunque il tentativo di sancire una volta per tutte, per il pubblico italiano e americano, l’importanza di questo autore. Paradossalmente, poi, come si evince dai saggi contenuti nel volume, quello che è senz’altro l’autore più attento alla figura femminile in un periodo storico che ne segna il passaggio dal destino rurale all’emancipazione, si presta oggi anche alla lettura opposta, per certi versi ancor più vivida. In tutti i suoi film infatti, a disegnarsi netta, quasi in negativo, è la solitudine del maschio sotto la scorza gretta da padre padrone, il dissolversi progressivo delle certezze di quel merlo maschio tanto ben delineato dalla nostra commedia, l’infinita stoltezza di fronte all’avanzare del cambiamento del destino femminile che ne farà per sempre “un magnifico cornuto”. Davanti ai film di Pietrangeli, per la generazione degli anni ‘60, pesava poi il fatto di trovarsi di fronte a un percorso che partiva, come critico, dal neorealismo più ortodosso, per sfociare invece in quello registico che ne era un graduale ma deciso superamento. Il che poteva sconcertare una critica che, ancora all’epoca in cui Pietrangeli realizzava i propri capolavori, era ferma al tabù della fedeltà al neorealismo. Pietrangeli si era formato all’interno dell’ortodossia neorealista: come critico, tra i più combattivi della sua epoca, fin dagli ultimi anni del fascismo aveva auspicato, seguito, difeso un ritorno al realismo come autentico spirito della tradizione artistica italiana, soffermandosi sull’importanza degli attori, sulla necessaria differenza con il cinema americano, all’interno di una visione sostanzialmente marxista. In quegli anni aveva collaborato tra l’altro con Visconti (Ossessione, La terra trema), Germi (Gioventù perduta), Lattuada (Senza pietà, La lupa), Rossellini (Europa ’51, Dov’è la libertà…?, Viaggio in Italia). Ma quando passa alla regia, già con un intenso e preciso ritratto di donna del popolo (Il sole negli occhi, 1953) il neorealismo è già in crisi, e dopo aver cercato la propria strada all’interno della commedia di costume (Il marito, Souvenir d’Italie) Pietrangeli sceglie la via di un confronto diretto con la modernità incombente, in maniera sempre più critica, attraverso il filo conduttore di personaggi femminili perdenti, tragici: dalla sposina inquieta di Nata di marzo (1958), prigioniera del matrimonio e di un nascente consumismo, alle prostitute di Adua e le compagne (1960), alla trilogia memorabile di La visita (1963), La parmigiana (1963) e Io la conoscevo bene (1963), in cui un universo sociale (e mediatico) in evoluzione confligge in maniera tragica e a volte ironica con delle donne, giovani e meno giovani, in cerca di un proprio posto. Rivedere Pietrangeli significa dunque rimettere in prospettiva l’evoluzione del cinema italiano nel rapporto col proprio tempo, e cogliere, all’interno di una parabola di autore in fondo breve – che si consuma tutta in una quindicina d’anni scarsi – una ricchezza di elementi. Per semplificare, se ne può tentare un elenco sommario: 1) L’unicità dei ritratti femminili, in anni in cui, come si è detto, il cinema italiano è sempre più maschile, specie nei generi (commedia, western): i suoi personaggi sono oggi i più vividi di un periodo, i più simbolici e insieme i più credibili, oltre a essere funzionali (come si diceva) a una critica impietosa del maschile. 2) Il racconto degli anni del boom attraverso le atmosfere, rendendoli in maniera perspicua, attraverso personaggi di nuova borghesia (anche mancata, o tragica), irradiando il sospetto di un avvento patologico, sbagliato, difettoso, della modernità nel nostro paese, con un occhio particolare al rapporto tra città e campagna (spesso i suoi personaggi femminili vengono dalla provincia e arrivano in una Roma estranea e in sinistro sviluppo). 3) La costruzione delle sue storie e il tono in cui sono raccontate, che fa saltare la distinzione tra generi, e in particolare quella tra i due grandi macrogeneri del cinema italiano, il melodramma e la commedia. I suoi film si muovono sul crinale tra comico e tragico. Come molti altri film del periodo, certo: ma con un paio di differenze. La prima è la forte presenza delle marche registiche, di uno stile narrativo e visivo moderno e non “invisibile” come nelle commedie all’italiana. E il secondo, forse più importante, è il ribaltamento di prospettiva rispetto al classico personaggio maschile del cinema italiano di quegli anni. Assumere una protagonista femminile significa anche eliminare ogni possibilità di ambigua immedesimazione dello spettatore nei classici personaggi di gaglioffi e di meschini dell’Italia del boom. François Périer in La visita, Manfredi in La parmigiana, i mille personaggi maschili di Io la conoscevo bene non permettono in nessun modo l’identificazione da parte del pubblico. Senza che per questo venga meno, da parte del regista, la comprensione e la pietà nei loro confronti. 4) Il suo costringerci a ripensare l’articolazione classica del cinema italiano di quegli anni, con al centro la triade Fellini-Visconti-Antonioni: quando sarebbe venuto il momento di ripensare al ruolo unico di registi come lui, Germi e Scola che sembrano fare continuamente la spola tra la triade e i generi (soprattutto la commedia) e che somigliano più da vicino a registi americani come Zinneman, Aldrich, Penn, capaci di un cinema di potente soggettività (d’autore) che non implica affatto la rinuncia a praticare, ad appassionarsi e riformare le grandi configurazioni dei generi (è una idea d’autore, spuria, ma proprio per questo non meno interessante sul piano culturale e critico, in cui potrebbero rientrare anche le filmografie di notevoli registi come Lattuada e Zurlini). 5) La proposta di una peculiare via alla modernità cinematografica e di un’opzione stilistica forte (i pianisequenza, la macchina da presa come personaggio, l’uso di angolazioni non convenzionali, gli attacchi sorprendenti di montaggio, l’euforia della scrittura narrativa ecc.) che molti, giustamente, hanno accomunato all’irrompere sulla scena mondiale delle libertà stilistiche delle nouvelle vague. Se in Italia è mancata una vera generazione di registi nouvelle vague, molte opzioni di quella stagione si trovano proprio in questi film di Pietrangeli. In particolare, il suo confronto con personaggi femminili e con la loro forte fisicità lo spinge a tratti ad assumere, pur all’interno di sceneggiature solide e di un atteggiamento registico figlio più di Visconti che di Rossellini, momenti di sospensione del racconto. Nei viaggi e negli episodi di cui sono spesso composti i film di Pietrangeli, le sue donne si fermano a tratti a pensare, a guardare, a sognare, ad ascoltare suoni lontani, e il regista le osserva: sono i momenti in cui forse il suo cinema raggiunge la massima intensità visiva. 6) L’adozione quasi sistematica di configurazioni narrative non lineari e di focalizzazioni complesse che rendono il racconto nei suoi film vicino alla complessità della letteratura contemporanea e a una ricerca consapevole di una scrittura polimorfa e discontinua. La pesante linearità ed elementarità narrativa di tutto il cinema italiano a partire dagli anni ‘80 è dovuta anche alla perdita di questo straordinario laboratorio che faceva della scrittura il primo vero set (le discussioni, l’oralità come pratica maieutica dello script: è Antonio, il papà di Paolo Pietrangeli, che la famiglia sente ticchettare all’infinito alla macchina per scrivere nel suo studio). Il team Pietrangeli-Scola-Maccari rimane il focolaio di maggior contiguità con il “romanzesco” nel cinema italiano popolare, per ricerca di strutture, complessità della voce narrante, sperimentazione nella lingua del cinema di strumenti letterari (analessi, mimesi di lingue locali, discorso soggettivo e interiore, invenzione sintattica). Se i giovani autori italiani avessero studiato e amato di più questo cinema, e un po’ meno la propria autobiografia, oggi avremmo film italiani diversi. 7) Il rapporto originale con gli altri media e prodotti culturali, in particolare la musica leggera, la moda, il design, l’architettura. A scandire il racconto sarà il ritmo della canzonetta, lo scatto del giradischi, la nuova frenesia della festa, del ballo onnipresente, delle ricche cene chiassose e opulente in ville appena ristrutturate con frigidaire, televisione a specchio e, naturalmente, la piscina come feticcio ineludibile. E l’abito, dall’alta moda al bikini per fotomodelle in cerca di volatile successo, fa davvero la donna, ripercorrendo la storia del costume dai grembiuli ruvidi delle servette fine anni ‘50 all’optical e all’alta moda anni ’60 e ’70. L’importanza di Pietrangeli dunque oggi comincia a essere riconosciuta, e la sua influenza appare manifesta o viene rivendicata. Come è stato già nell’erede per certi versi più diretto, il suo sceneggiatore Ettore Scola: in maniera segreta in molti personaggi femminili e invece in diretta filiazione, si direbbe, almeno per Una giornata particolare (1977), film forse inconcepibile senza il cinema di Pietrangeli. Oggi, in registi di varie generazioni, tutte le volte che si vuole raccontare un momento di inquietudine e di crisi di una società attraverso il percorso di una donna alla ricerca di se stessa: c’è Pietrangeli, in questo senso, in molti titoli di Paolo Virzì, in certi ritratti di Francesca Archibugi o di Francesca Comencini. E soprattutto, rimane il rimpianto di un film non realizzato, quello di Matteo Garrone sul mondo del gossip, delle soubrette, della politica italiana degli anni 2000. Un film che sarebbe stato ispirato, stando al regista, proprio a Io la conoscevo bene. Un film non fatto, un film che bisognerebbe provare a fare, e che conferma la straordinaria forza e attualità del metodo e dello sguardo di Pietrangeli.
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